Fabrizio Zampighi
Sentireascoltare
18 Gennaio 2016
Un curriculum come quello di Roberto Paci Dalò, in un’epoca di iper-specializzazione come è quella che ci vede protagonisti e che spesso perde di vista il senso logico del discorso artistico in favore di un’appartenenza stilistica auto-ghettizzante, non passa inosservato. Classe 1962, Dalò ha sempre seguito percorsi trasversali nella sua produzione, figli anche di una personalità che somma le conoscenze del regista teatrale, le esperienze dell’artista visuale e la sensibilità del musicista. Percorsi che sono sfociati in un interesse per l’indagine storica, ma anche per l’aspetto visuale di una musica contemporanea in bilico tra elettronica, improvvisazione, elementi etnici rivisitati e molto altro. L’ultimo «progetto espanso» di Dalò si chiama 1915 The Armenian Files ed è dedicato al dramma del Genocidio armeno, «un tema che per sua natura libera un groviglio di emozioni e tematiche importanti perfettamente modulabili sull’ambient-elettronica di Dalò», scriviamo nella recensione del disco. Ne abbiamo parlato con il diretto interessato, tra notazioni metodologiche e riflessioni sull’opera artistica.
I tuoi album non sono mai semplici album, ma progetti ben più complessi. Come nasce l’idea per un lavoro come 1915 The Armenian Files?
1915 The Armenian Files nasce attorno al 1988. Mi spiego. Mi trovavo a Roma durante le prove di un mio spettacolo quando vidi nei tamburini di un quotidiano un film dallo strano titolo di produzione russa (anzi, sovietica). Andai a vederlo al Cineclub Il Labirinto una domenica pomeriggio e, una volta partite le prime immagini, ero già caduto nel vertigo armeno attraverso la mente e le magnifiche ossessioni di Sergei Parajanov. Da quel momento l’Armenia non mi ha più lasciato e ho creato nel tempo una serie di opere che da lì sono nate. Opere realizzate anche grazie alle persone importanti che ho incontrato: Adriano Alpago-Novello, Boghos Levon Zekiyan, Naìry Baghramian. 1915 The Armenian Files è innanzitutto un progetto espanso attorno al dramma del Genocidio armeno. Al centro il disco, ma attorno, come una costellazione, si articolano opere visive, un lavoro radiofonico, un blog dove inserisco man mano materiali, un film girato a Bourj Hammoud (la città armena di Beirut). Una riflessione allargata, quindi, attorno al Genocidio, perché è così che lavoro abitualmente, usando le pratiche (i processi) dell’arte per investigare e approfondire più àmbiti.
Musicalmente parlando, che obiettivo ti sei posto durante la realizzazione del disco? In che modo la musica di 1915 The Armenian Files riesce a esprimere il concept alla base del lavoro?
Un’opera è un’interfaccia che ci permette di entrare in un mondo. Dobbiamo quindi lavorare come progettisti e riflettere sulla costruzione di questa soglia. Mi piace pensare a interfacce “semplici” che permettano a pubblici diversi – per educazione, generazione, riferimenti culturali – di entrare in mondi talvolta sconosciuti. Ho voluto qui costruire un sistema accessibile che passasse anche attraverso un suono caldo come quello del clarinetto, pulsazioni elettroniche legate alla ricerca contemporanea, voci narranti e lingua poetica.
Strumentalmente ho lavorato sul rapporto tra uno strumento guida (il clarinetto) ed elettronica/campionamenti, con la partecipazione anche della chitarra di Fabrizio Modonese Palumbo e del violoncello di Julia Kent. Sulla parte elettronica ho avuto la fortuna di lavorare con Stefano Spada aka Light Parade, fra i musicisti che preferisco della scena elettronica di oggi, il quale ha costruito alcune delle strutture ritmiche più importanti per l’album. Pur partendo da una tragedia come il Genocidio, questo mio lavoro, tuttavia, evoca una speranza. Riflette sulla necessità di non dimenticare per prevenire altre tragedie. Non deve trarre in inganno la collocazione temporale del Genocidio, perché è sufficiente evocare alcune parole chiave per ritrovare una gelida attualità: genocidio, rifugiati, deportazione, eccidi. Mi sembra che il nostro 2015 non sia poi così lontano dal 1915.
Che ruolo ha la voce nell’album? Quanta importanza ricopre, invece, l’aspetto “etnico” legato ai suoni e come lo hai reso?
La grana della voce è tutto. Le poesie di Daniel Varoujan sono narrate da Boghos Levon Zekiyan. Varoujan è uno dei più importanti poeti armeni ed anche lui è stato ucciso e torturato da cosiddetti “poliziotti” turchi nel 1915. La sua poesia che uso in questo lavoro proviene da Il canto del pane, raccolta uscita postuma nel 1921. Sono testi bucolici, sereni, che nulla hanno a che vedere col Genocidio :«coglili, sorella, perché di essi c’incoroneremo / per la gioiosa festa di domani, al villaggio. / E in queste coppe, danzando, / berremo il vino dell’amore».
Ma proprio versi di questo tenore volevo per poter lavorare su registri diversi onde evitare la retorica, e per evocare un mondo sereno che trova un contrappunto in altre voci femminili che invece sono quelle di alcune sopravvissute, testimoni oculari degli eccidi commessi. Sono voci di anziane registrate negli anni Settanta che ho ritrovato grazie alla cornucopia Internet. Appare nel disco anche la voce del compositore, religioso e musicologo Komitas Vardapet (il padre della musica armena). Komitas impazzì di fronte agli eventi del Genocidio trascorrendo buona parte della vita – dal 1919 al 1935, anno della morte – in una clinica psichiatrica francese. Si tratta di registrazioni fatte tra il 1908 e 1912, restaurate in modo tale da renderle ambiguamente contemporanee. Contrariamente a una pratica consueta nell’affrontare materiali tradizionali, non ho voluto usare strumenti musicali popolari. Non c’è quindi il duduk (l’oboe popolare armeno dal suono meraviglioso), ma poiché mi sta molto a cuore la prassi esecutiva su un unico strumento (il mio, il clarinetto), da lì sono voluto partire per trasformare il clarinetto in un duduk. Ecco, mi interessa lavorare più in questa direzione piuttosto che fare un catalogo di suoni etnici. Ciò mi permette di creare un vocabolario – strumento abbastanza articolato dove mi è sufficiente un cambio di pressione sull’ancia o una diteggiatura diversa per passare da un suono cosiddetto “etnico,” al glitch strumentale o alle tecniche contemporanee. L’utilizzo del live electronics permette poi di moltiplicare un singolo strumento e creare a tratti una polifonia di gesualdesca memoria.
Nella tua produzione mi pare che ci sia sempre un grande portato emotivo, espresso tuttavia in maniera molto asciutta, elegante. Una materia anche difficile da gestire, se vuoi, proprio perché ha bisogno di equilibri molto sottili…
I dettagli sono tutto e credo in un equilibrio dove convivono apparenti opposti. Liricità e astrazione, minimalismo e massimalismo, suono tradizionale e attuale. Come se attorno a un tavolo si ritrovassero a chiacchierare Morton Feldman, Burial, Bill Laswell e Luigi Nono. Proprio sul clarinetto ho studiato – fin da quando ero piccolo – allo stesso tempo musica classica, improvvisazione e tecniche contemporanee. Ma fondamentale è stato il lavoro parallelo sulle prassi esecutive di luoghi quali l’Armenia, il sud dell’Albania e l’Epiro, la sterminata tradizione ebraica (ibrida per sua natura). Nel 1988 ho creato a Gerusalemme, su invito di Israel Adler (all’epoca direttore del dipartimento di musicologia dell’università di Gerusalemme), la RPD Klezmer Orchestra, il primo ensemble italiano dedicato alla musica strumentale ebraica. Nelle musiche tradizionali la componente emotiva va di pari passo con il controllo della situazione attraverso stilemi ben precisi e riconoscibili. È una sorta di pratica della “trance” guidata grazie a una memoria musicale, acustica e rituale introiettata. Mi interessa applicare queste ricerche a luoghi apparentemente altri come, ad esempio, la scena dell’elettronica.
Quando comprendi di essere arrivato alla giusta dimensione per un brano? Qual è lo scatto che ti fa pensare di poterlo archiviare e di aver raggiunto l’obiettivo?
1915 The Armenian Files è stato registrato dal vivo durante un concerto per il benemerito programma Kunstradio in onda la domenica su ORF (OE1 è il primo canale della radio nazionale austriaca, corrisponde un po’ alla nostra Radiotre). Nella post-produzione ho solamente eliminato pochi minuti, ma il disco è in effetti un disco dal vivo e l’ho voluto pubblicare così come è stato registrato. Mi piace segnalare che la performance è andata in onda in 5.1, per cui i due ingegneri del suono lavoravano anche sulla spazializzazione del suono in diretta. La componente improvvisativa è per me sempre di importanza assoluta e mi piace trovarmi in situazioni a rischio (come potrebbe essere un progetto radiofonico come questo) con materiali che posso modificare in tempo reale durante la performance.
Ho la fortuna di lavorare con produttori che mi vogliono bene (si fidano, persino) e solitamente mi danno carta bianca. In questo caso penso a Mirko Rizzi (Marsèll), Elisabeth Zimmermann (ORF Kunstradio), Davide Quadrio e Francesca Girelli (Arthub Shanghai). È grazie a questa fiducia che posso produrre in modo completamente libero e con tempi miei. Poi sono felice di ricordare che questo disco è anche co-prodotto dall’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia per merito dell’Ambasciatore Sargis Ghazaryan, che in prima persona ha seguito il progetto in tutto il suo sviluppo.
Hai un curriculum decisamente complesso, speso tra teatro, opere visive e musica. Esiste un filo conduttore che unisce tutte le tue esperienze – riconducibile magari al modo in cui affronti la produzione artistica – o ti piace spaziare su vari ambiti proprio per operare in maniera diversa ogni volta?
Ho studiato contemporaneamente musica e arti visive. Questi due mondi si sono fusi nel lavoro che mi sono inventato, di volta in volta utilizzando formati e contesti diversi. Non faccio “multimedia”, al contrario sono molto “mono medium”. Ogni linguaggio ha suoi codici, storia, pubblico, per cui è indispensabile essere a conoscenza delle regole del gioco. Lavoro quasi sempre in gruppo perché non potrei mai avere la conoscenza di tutto questo. Il fatto di scegliere di volta in volta il giusto medium permette un approfondimento “verticale” e non semplici accostamenti “orizzontali”. Insieme all’immagine e al suono penso al teatro – inteso come spazio fisico e mentale – che per eccellenza è il luogo dell’incontro tra le arti. Da sempre. Se penso alla forza immaginifica e mediale del teatro barocco non posso non considerare come alcune delle invenzioni dell’epoca sono ancora alla base delle messe in scena di oggi (o almeno delle mie). Il rapporto tra tecnologie analogiche e digitali è per me una chiave importante. Nel 1985 ho co-fondato la compagnia Giardini Pensili e sotto questo marchio ho presentato tutti i miei progetti legati all’incontro tra musica, teatro, tecnologie.
Mi pare che la dicotomia “modernità / peso della storia” caratterizzi buona parte della tua produzione. Penso ad esempio anche a Ye Shanghai…
Storia e geografia sono due sezioni del sussidiario che mi sono sempre state molto a cuore. E oggi così paradossalmente bistrattate, proprio quando il nostro quotidiano è completamente legato alla geopolitica (come anche alla biopolitica). Molti miei progetti poggiano su strutture drammaturgiche basate su una riflessione sulla storia, sulle storie. Da tempo la drammaturgia non si fonda più solo sulla parola ma coinvolge tutto: lo spazio, il corpo, il suono, la voce. Una drammaturgia acustica è debitrice delle tecnologie del suono in relazione allo spazio. Altra parola chiave per il mio lavoro è archivio. Per me lavorare negli archivi è tutto. Passo molto tempo a scavare tra immagini, suoni, testi; è bellissimo e mi sento sempre un po’ detective.
Proprio dagli archivi nasce Ye Shanghai, un altro tassello di questo lavoro sistematico sulla Storia a partire da una storia poco conosciuta: il ghetto di Shanghai. Formalmente conosciuto come il “Settore limitato per i rifugiati apolidi” (mukokuseki nanmin gentei chiku), il ghetto era una zona di circa un miglio quadrato situato nel distretto di Hongkou di Shanghai occupata dai giapponesi. Ospitava circa 23.000 rifugiati ebrei fuggiti dall’Europa occupata dai tedeschi prima e durante la seconda guerra mondiale. Ho costruito attorno a questi materiali d’archivio (immagini in pellicola degli anni Trenta e Quaranta dal BFI British Film Institute di Londra, suoni degli anni Trenta, paesaggi sonori) un lavoro che ci riporta istantaneamente in quel tempo anche grazie alla presenza della voce di una sopravvissuta che, anziana, racconta il suo viaggio di bimba di sei anni dalla Germania nazista a una Shanghai metropoli e sconcertante.
In passato hai avuto contatti con personalità come John Cage. Cosa ti hanno lasciato queste esperienze, in termini di ricerca artistica?
Come dice il Pirqé Avot: “Tutta la vita sono cresciuto tra i maestri”, e cioè tra. Nello spazio bianco, vuoto, lasciatomi dai maestri. Così è stato Cage per me. Un amico, una persona che a New York mi portava in giro a sentire prove e concerti, oppure a casa mi preparava il thè. Cage mi ha insegnato l’anarchia, la passione, l’ironia. Prima ancora della ricerca artistica, c’è quella umana, e poter incontrare una persona in grado di lasciare infiniti spazi vuoti nei quali muoversi è stata una scuola incomparabile. Nessuno come lui.