L’invisibile per temperato

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December 26, 2024

Media: La casa Usher

L’invisibile ben temperato in Culture Teatrali, n. 27, La casa Usher, Firenze, 2018.

di Roberto Paci Dalò

Il teatro ha luogo sempre dovunque ci si trovi. […] per me il teatro e semplicemente qualcosa che vincola la vista e l’udito. […] Desidero definire il teatro in termini cosi semplici perche in questo modo e possibile considerare teatro anche la vita di ogni giorno.

John Cage

Penso a parole chiave e nomi che mi accompagnano. Come in un gioco di libere associazioni vorticosamente appaiono Hannah Arendt, Anna Achmatova, Luigi Nono, Carmelo Bene, Demetrio Stratos, Marina Cvetaeva, Walter Benjamin, Delia Derbyshire, Dylan Thomas, Osip Mandel’štam, Saul Steinberg, John Cage, Joseph Beuys, Samuel Beckett, Morton Feldman, Heiner Müller, François Couperin, Carlo Scarpa, Orson Welles e poi Berlino, Napoli, Vancouver, Armenia, Georgia, Mediterraneo, teatro, radiofonia, interattivo, controtenore, installazioni, fascismo, cinema, cartografie, drammaturgia dei media, citta, trance, anarchia, archivio, biblioteca, barocco, public space, infanzia, ebraicita, elettronica, lingue, voci, preghiera, noise, layers, comunita, storia, memoria, silenzio, network, architetture invisibili, arte della guerra, natura e, inoltre, composizione.

Penso al termine composizione come riferita a più parametri, al di la della dimensione puramente acustica, sonora e musicale. La musica, com’e noto, e solo una piccola parte all’interno dell’immenso mondo sonoro. Spesso si tende a confondere le due cose, usando la parola musica come sinonimo del termine suono. Potremmo allora affermare che il suono contiene in se, in modo formalizzato, una musica. La musica e allora un momento o una condizione del suono. Parlando del suono ci riferiamo quindi all’intera gamma dell’udibile, ed e necessario, in questo senso, pensare a un processo compositivo che incorpora il rumore e l’intero soundscape, dell’ambiente.

Inoltre, a un primo livello, quando si parla di composizione in un’opera scenica, si rinvia a un intervento che coinvolge il montaggio di tutti i piani. La composizione, in altri termini, non può non riguardare una riflessione sul tempo e sulle sue diverse dimensioni. È questione, come direbbe Andrej Tarkovskij, di scolpire il tempo di ogni intervento, sia performativo che installativo o sonoro. A un secondo livello il termine composizione, rinvia alla relazione, o meglio, all’equilibrio tra i diversi materiali della messa in scena; questo fa si che anche uno spettacolo generato a partire da un testo non sia succube di quest’ultimo. In definitiva, parlare della composizione, significa riferirsi alla forma complessiva attraverso la quale si dispiega un’opera. Quando John Cage cita Ananda Coomaraswamy che a sua volta evoca S. Agostino, dice che l’imitazione della natura e nel suo processo, non si tratta dell’imitazione della forma, bensi della sua struttura portante, qualcosa di molto più complesso della semplice visibilita esteriore. Comporre ha quindi a che fare con l’assunzione di responsabilita nei confronti di un processo.

Tutti i miei progetti operano in una logica che potremmo definire di “Teatro espanso”, che permette di ritrovare forme di teatralita anche la dove, apparentemente, altri non veono nulla di particolare. Una di queste pratiche, nello specifico, consta nel trattare lo spazio teatrale convenzionale come un oggetto trovato, per forzarne i limiti nella messa in scena, ed esplorarne le possibilita al di la delle convenzioni. Ciò include anche il rapporto con i tanti grandi professionisti che lavorano nei teatri di tradizione e con i quali si possono sognare progetti innovativi. Creare dei veri e propri spazi immersivi, che possano ricordare agli spettatori l’eccezionalita dell’accadimento teatrale oltre alla necessita di esser sempre dentro i luoghi. Uno spettacolo non va visto, va attraversato. Per quel che mi riguarda e fondamentale immergercisi. Sprofondare col corpo e lo spirito. Perche questo sia

possibile, la drammaturgia del suono e di un’importanza capitale, perche permette di creare architetture udibili – si pensi al supremo architetto del suono, J. S. Bach, per esempio.

La logica sonora delle immagini

Ciò che mi interessa, nel momento in cui compongo, e permettere allo spettatore di vivere un’esperienza che gli permetta – a partire da quello che ha sotto gli occhi e per le sue orecchie – di abitare un mondo altro, metamorfico, in cui le immagini possono essere suscitate da un suono e non essere li, di fronte a lui.

In questo senso, molti degli spettacoli che ho realizzato nel corso del tempo sono diventati opere radiofoniche. Cosi come opere radiofoniche sono state presentate dal vivo in scena. La radio ha un’importanza assoluta nel processo di lavoro. L’assenza di immagini nella radiofonia permette all’ascoltatore di visualizzare immagini infinite e personali. Un po’ come il bianco e nero cinematografico che scatena cromatismi mentali inimmaginabili.

Nella sottrazione avviene la moltiplicazione.

Questa sensibilita ha cominciato a far parte del mio lavoro quando, a Berlino nel 1993, il compositore e sound artist Hans-Peter Kuhn – collaboratore determinante per il lavoro di Bob Wilson – mi ha insegnato le tecniche di spazializzazione del suono in scena. Mi ha messo a disposizione tecnologie e persone per realizzare il mio primo ambiente acustico multicanale attraverso computer e campionatore. Si tratta di un sistema e una pratica che – pur nell’evoluzione tecnologica – non ho più abbandonato. La maggior parte dei lavori usano la spazializzazione per creare ambienti immersivi grazie al suono.

È cosi che opere fondamentalmente bidimensionali come possono essere allestimenti in teatro – la cornice, il quadro – divengono tridimensionali grazie al suono che permette al pubblico di essere all’interno dell’azione, pur abitando un edificio convenzionale come potrebbe essere un teatro di tradizione.

Lavorare sulla spazializzazione permette di riflettere con attenzione particolare sui materiali, portando inevitabilmente a una riduzione degli stessi, fino ad arrivare a un prezioso distillato. Pensare allo spazio aiuta a scarnificare l’archivio sonoro per agire con sobrieta. C’e una relazione profonda tra soundscape, pensiero dello spazio, ambienti acustici, percezione e voce.

In questo senso si muovono diversi dei miei lavori, in particolare posso citare qui Animalie – del 2002 e sul quale vorrei poi tornare in seguito, in merito alla qualita acustica dela voce impiegata. Si tratta di un dispositivo acustico che assorbe tutti gli aspetti della messa in scena, fino ad avere un impatto percettivo e sensoriale sullo spettatore molto maggiore rispetto a quanto possa esserne capace un’immagine. La cosa importante, da un punto di vista teatrale e drammaturgico, e che il suono, apparentemente astratto, agisce su parametri che sono molto più legati al corpo rispetto di quanto lo sia l’immagine. È come se l’immagine fosse sempre esterna al corpo, arrivi sempre dopo, come se mantenesse sempre una certa distanza oltre ad avere una scarsa capacita immersiva; mentre il suono e immediato e penetrante, scopico, investe direttamente la sensorialita. Si tratta di una cosa molto fisica che ha una spiegazione tecnica precisa: una serie di frequenze provocano determinate vibrazioni e risonanze. Queste vibrazioni risuonano a un doppio livello: sul piano dell’architettura spaziale e sul piano corporeo.

La voce come materiale sonoro

A proposito della voce, il compositore e regista Heiner Goebbels dice che gli piace lavorare con la lingua Francese perche non la conosce e non la capisce. È per lui puro suono.

Nel tempo ho fatto tradurre testi dall’italiano in lingue come l’arabo, l’ebraico, il greco e persino in nahuatl (una delle lingue del Messico precolombiano) per poter lavorare sulla ricchezza acustica della parola. Materia sonora pura e misteriosa.
Tuttavia ritengo veramente difficile poter lavorare con voci che, invece, sono liricamente impostate. Ma ho un amore incondizionato per i timbri del controtenore e della viola da gamba. Ho quotidiani ascolti antichi e passo il tempo con Marin Marais, Sainte-Colombe, Thomas Tallis, Claudio Monteverdi, John Dowland, Giovanni Gabrieli, Henry Purcell, Gesualdo da Venosa, J.S. Bach, Girolamo Frescobaldi e altri compagni di strada. Tra le tante opere una in particolare fa tremare ad ogni ascolto: Le Leçons de Tenebres di François Couperin interpretate dal controtenore inglese Alfred Deller. Di una sconcertante sacralita laica le vocalizzazioni delle lettere ebraiche – dove la voce diviene puro strumento metafisico – creano un contrappunto sublime alla chiarezza nello scandire il testo (le Lamentazioni di Geremia) sillaba per sillaba.

Ma, al di la della bellezza e intelligenza della composizione di Couperin, e proprio Deller – la sua voce – ad ammutolirmi. Altri interpreti possono fare un lavoro egregio. Ma non e la stessa cosa. Proprio quel timbro, quei silenzi, quell’aprirsi a un assoluto che va oltre la musica stessa facendo sprofondare nel dramma di un’intera citta.

Rieccheggia la parola “Jerusalem” e le sue frequenze aprono a un dolore atemporale e, in fondo, indicibile a parole. Cosi quelle vocalizzazioni su “Aleph”, “Beth”, “Ghimel”…
« Qui inizia la Lamentazione del profeta Geremia. / Aleph. Ah! come sta solitaria / la citta un tempo ricca di popolo! / È divenuta come una vedova, / la grande fra le nazioni; / un tempo signora tra le province / e sottoposta a tributo. / Beth. Essa piange amaramente nella notte, / le sue lacrime scendono sulle guance; / nessuno le reca conforto, / fra tutti i suoi amanti; / tutti i suoi amici l’hanno tradita, / le sono diventati nemici. / Ghimel. Giuda e emigrato / per la miseria e la dura schiavitù. / Egli abita in mezzo alle nazioni, / senza trovare riposo; / tutti i suoi persecutori l’hanno raggiunto / fra le angoscie.»

Se penso a questo processo di contaminazione tra la voce, il suono e la modulazione delle immagini, rievoco alla mente un’opera che ho realizzato nel 1999, Il Cartografo. Questo lavoro e una riflessione sulla cartografia e sulla rappresentazione del mondo. Nella tessitura di quest’opera, immagini, suoni e narrazioni sono raccolti e riproposti nelle lingue originali legate al nord dell’Adriatico creando la foresta acustica che fa da piattaforma allo spettacolo. Intrecciate a queste voci appare la voce fuori campo di Predrag Matvejevic’ ́ che interpreta alcuni frammenti dalla sua opera Breviario Mediterraneo. In scena un tavolo attorno al quale siedono gli interpreti a evocare una classica raffigurazione seicentesca ove compaiono strumenti di orientamento e misurazione. L’azione si concentra tutta qui, in questo luogo che evocando mappe e mappa a sua volta. Che guarda e si guarda allo stesso tempo: “Horon horonta” ‘vedendolo nell’atto di vedermi’ (Dioniso). Suoni e voci si muovono attorno al pubblico attraverso un sistema di diffusione sonora multicanale controllata – in diretta – via computer. Il violoncello dal vivo gioca con il suono e la prassi esecutiva della viola da gamba.

In questo senso, nella direzione della qualita acustica della voce, torno a citare Animalie, che nasce a partire da un testo di Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale. Questo testo e, per sua natura, non rappresentabile. Per me quindi l’unica modalita di avvicinarlo e quella di affrontarlo in modo speculativo: vale a dire leggere il testo a partire dalla composizione di un altro testo che a questo si rapporti. Animalie e quindi un commentario. Ho scelto delle parti del testo come geografia di riferimento, soprattutto tra le più evocative da un punto di vista teorico; in seguito e stata registrata la voce di Giorgio Agamben e questi frammenti sono stati elaborati attraverso il processo della sintesi granulare.

L’elaborazione avviene per via di una scomposizione e di una ricomposizione successiva del suono, operata a partire da frammenti minimi. All’interno di questo processo la cosa rilevante e che non ho lavorato con suoni unicamente sintetici; il risultato della sintesi granulare dipende solo dai materiali

impiegati e dai parametri qualitativi imposti al programma. Un file della voce di Giorgio Agamben, di circa quattro secondi, viene processato attraverso la sintesi granulare per dar vita a quattro minuti di suono. È chiaro che in questi quattro minuti accadono, da un punto di vista acustico, una quantita di cose che trascendono il materiale originale. In un certo senso il soundscape di Animalie e costruito su una traccia della voce di Agamben che, in se stessa, e irriconoscibile. Una cosa interessante e casuale, derivata dal trattamento della materia sonora, e che partendo da alcuni parametri applicati alla voce e stato possibile produrre suoni che evocano voci di animali; succede cosi che il testo di Agamben, trattato con la sintesi granulare, appare in scena non riconoscibile, ma al suo posto emergono le voci degli oggetti del discorso. L’animale viene evocato attraverso la voce dell’autore che, a sua volta, si fa bestia. Il lavoro fatto per Animalie, grazie al processo della sintesi granulare, e principalmente orientato alle altezze del suono, cosi da poter espandere oltremodo le possibilita di diffusione dell’onda sonora. L’impressione e come se si stesse entrando, secondo un processo per gradi, dentro l’immaginazione di Agamben, in un percorso concepito attraverso tutte le modulazioni che dalla gran della sua voce portano al suono finale. Questo ha fatto si che lo spettro acustico della performance fosse una paradossale polaroid acustica di Agamben.

Se il testo di Agamben e, come noto, un testo certamente non teatrale, teatrali sono invece i due testi composti da Gabriele Frasca per Stelle della Sera (2004). Essi sono estratti da un suo lavoro più complesso articolato in cinque parti intitolata Tele: cinque “tragediole” che rappresentano altrettanti quadri di un’unica messa in scena. Si tratta, in realta, di cinque stazioni nel percorso che procede verso la dissoluzione del personaggio e la progressiva “messa in scena” dello stesso spettatore affidando all’impiego delle tecnologie teatrali (diffusori sonori variamente posizionati, luci in funzione di personaggi, musica come elemento compositivo ecc.).

Uno dei due e, inoltre, un testo composto in endecasillabi nascosti; perciò, anche se questi ultimi non sono apparentemente riconoscibili, l’endecasillabo ha una forza metrica tale da poter imporre un ritmo all’interno del quale e possibile intervenire. Vengo allora alla tua riflessione: il segreto di questi testi e la dinamica d’implosione che essi nascondono. Sono talmente carichi di immagini evocate, da creare un cortocircuito tale da trascendere il testo. E questo testo diventa davvero un dispositivo per la trance. Sono testi pensati e scritti in modo tale che tendono a disintegrarsi in un flusso vocale.

Ciò che accomuna i due lavori – Animalie e Stelle della sera – nei termini di un’acustica della voce, e la nozione di trance. L’idea e il desiderio di costruire una macchina che intervenga sulla percezione, indipendentemente dai materiali di partenza. Il lavoro può nascere da una suggestione visiva, da un testo o da una sonorita. La trance instaura una serie di relazioni con altri concetti come quello appena ricordato di percezione ma anche con altre parole chiave come sensorialita. Tutto questo concorre a creare qualcosa che, come il teatro, a che vedere con l’extra ordinario.

Il teatro come ambiente

Fare del teatro – luogo che apparentemente ordinario uno spazio altro, extra-ordinario, per restituirlo alla sua originaria qualita ambientale. In questo senso, nell’ottobre 2006 abbiamo creato, presso il Teatro Valli di Reggio Emilia, Organo Magico Organo Laico un allestimento di legato al teatro-musica. Questo lavoro rientrava in un più ampio progetto di intervento, commissionato a diversi compositori, su un oggetto, un organo a canne collocato permanentemente in quinta sul palcoscenico. Cosa abbastanza inusuale per un teatro d’opera inaugurato nella meta dell’Ottocento. È stata dunque organizzata una regia a partire da questa componente musicale, come se si trattasse dell’allestimento di un’opera. In questo lavoro, realizzato in collaborazione con Roberto Fabbi, siamo intervenuti costruendo un testo a partire dalle diverse partiture pensate e scritte per l’organo. Da un lato abbiamo lavorato sulla messa in scena, dall’altro utilizzando la nostra sensibilita e i nostri strumenti specifici. Abbiamo affrontato il Teatro Valli come un oggetto trovato, operando sulla sua struttura come in un site specific. Abbiamo dunque ascoltato lo spazio, cosi come facciamo per un hangar o un edificio industriale o per qualunque altro spazio non convenzionale.
Si tratta di un vero e proprio intervento trasformativo del luogo nello strumento stesso, creando anche una relazione diretta tra interno ed esterno. Un ampio e pulsante respiro che nasce dallo strumento stesso, oggetto e soggetto dell’opera.

In primo luogo abbiamo disposto il pubblico tra il palco e la platea, inserendolo nelle due location tradizionalmente separate. Abbiamo inoltre coperto di tulle bianco l’intero perimetro dei palchi, a tutti gli ordini, e questi sono diventati schermi da proiezione semi trasparenti. La struttura del teatro, o meglio, il suo scheletro architettonico, rimaneva semi-visibile ma allo stesso tempo l’ambiente diventava immersivo. Anche tutti gli interpreti di questo lavoro erano semi-visibili, nel senso che erano collocati in quinta, quindi visibili dal pubblico sul palco; mentre erano fisicamente nascosti al pubblico in platea, che li vedeva soltanto attraverso le proiezioni. Nell’ottica di un intervento site specific, abbiamo chiesto ai tecnici del teatro di ricablare tutto l’impianto di illuminazione del teatro al fine di poterlo gestire direttamente dalla consolle di regia, controllando cosi tutte le luci del teatro, dal foyer alle luci interne ai palchi. In questo modo abbiamo fatto letteralmente pulsare il teatro per tutta la durata dell’evento, trasformandone l’architettura in un vero e proprio animale reso tangibile attraverso il respiro della luce in contrappunto al suono.

E un ambiente e anche l’altra messa in scena pensata sempre per il Teatro Valli: il 27 settembre 2014 per una notte il teatro viene completamente ridisegnato per ospitare Il grande bianco. Trascendenza della Grande Guerra in tutti i suoi spazi e trasformarlo in un dispositivo percettivo di dimensioni inusuali.

Immaginiamo un rifugio sulle Alpi dove una notte estiva si ritrova un gruppetto un po’ particolare. Attorno al tavolo sono impegnati in una appassionata conversazione Morton Feldman, Bill Laswell e Burial che proprio quella sera hanno scoperto la meraviglia di un coro alpino e intendono sicuramente lavorarci insieme.

Ecco cos’e Il grande bianco. Un incontro inaspettato tra questi mondi – apparentemente lontani – dove sono trasfigurati i materiali originali memori dei silenzi di Feldman, delle basse frequenze di Laswell, della grana della voce di Burial. Ispirazioni per creare qualcosa di radicalmente nuovo e antico allo stesso tempo. l canti della tradizione alpina – in particolare quelli legati all’epopea della Grande Guerra – vengono trasfigurati e ricomposti in un progetto contemporaneo dalla caratteristiche particolari. Si tratta quindi di una riflessione sulla Prima Guerra mondiale a partire da quello che ho individuato come uno degli elementi chiave dell’intero conflitto: il sentimento dell’attesa.

Una guerra di trincea fatta si di scontri cruenti ma allo stesso tempo di dilatazioni, silenzi, sospensioni. Per l’Italia il fronte principale sono state le Alpi dove permane nella memoria collettiva una mitologia della Grande Guerra. Un conflitto che ha còlto quasi tutti di sorpresa e provocato reazioni anche un po’ particolari (cfr. le diserzioni di massa, fenomeno singolare e mai visto prima su questa scala).

I materiali musicali di riferimento della composizione originale sono alcuni canti alpini (alcuni dei più belli e possibilmente meno conosciuti) che vengono completamente decostruiti e quindi ricostruiti per trasformarli in qualcosa di sorprendentemente diverso dall’originale. Dove la retorica e annullata per inoltrarsi piuttosto in un territorio ambientale rarefatto. Immaginiamo insomma un incontro tra un coro alpino e Morton Feldman dove i silenzi diventano quasi più importanti dei suoni stessi.

E non e questo, in fondo, il riverbero della montagna? Una musica trascendentale che evoca gli spazi sospesi di notti terse dove anche i più piccoli suoni hanno luogo in un luogo piccolissimo e enorme allo stesso tempo. Dove la vastita e percepita attraverso il dettaglio.

Stando sempre nella contaminazione di dispositivi, la dove il teatro diventa ambiente da abitare per lo spettatore, la messinscena de L’assedio delle ceneri (2008) – realizzato presso la Certosa di S. Martino a Napoli e a seguire andato in onda integralmente su Radiorai come opera radiofonica – lavorava sui materiali stringendoli ed espandendoli contemporaneamente per giungere e una dimensione immersiva e di assedio. Mentre gli interpreti si stagliavano nel vuoto dello spazio dato, le luci tremolanti disegnavano da un lato le geografie del volto e del corpo degli interpreti, dall’altro individuavano spazî, luoghi, traiettorie a creare il “campo elettrico” dell’azione drammatica. Avevo poi creato uno spesso tappeto di fumo (una sorta di lago di vapore che evocava un po’ un dipinto cinese) che occupava l’intera chiesa e dal quale emergeva l’architettura barocca. Insomma: un’architettura “pesante” che poggiava sulla leggerezza.

La composizione musicale originale e eseguita dal vivo, costruita sulla partitura dei testi a creare un sottile e partecipe contrappunto con le voci degli interpreti. Musica nella quale si intrecciano voci recitanti, suoni elettronici, strumenti quali il clavicembalo e la viola da gamba. I suoni provengono da più luoghi, più direzioni. Il pubblico si trova cosi all’interno di un campo acustico avvolgente, immersivo, dinamico, accolto fin dall’esterno da onde sonore.

Vedere e, dunque, abitare uno spazio d’ascolto.

Il regista, compositore e artista visivo italiano Roberto Paci Dalò e un pioniere nel rapporto tra teatro e tecnologie digitali investigando in particolare le relazioni tra suono, voce e spazio. Premio Napoli 2015 per la lingua e la cultura italiana, ha ricevuto la stima e il sostegno di artisti come Aleksandr Sokurov e John Cage. Guida la compagnia Giardini Pensili, co-fondata nel 1985, con la quale presenta proprie opere in giro per il mondo. Co-fondatore di The School of Radio / Scuola di Radiofonia, e membro della Internationale Heiner Müller Gesellschaft di Berlino e insegna Interaction Design presso UNIRSM dove ha fondato e dirige Usmaradio. giardini.sm, usmaradio.org