L’omaggio al popolo armeno dell’artista che prendeva il tè a casa di John Cage…

Luca Manservisi
R&D CULT
1 febbraio 2016

L’omaggio al popolo armeno dell’artista che prendeva il tè a casa di John Cage…
Il riminese Roberto Paci Dalò, «anarchico strutturalista», tra i vincitori del Premio Napoli 2015

In dicembre ha ricevuto all’Auditorium Rai del capoluogo campano il Premio Napoli, tra i più prestigiosi riconoscimenti per la cultura e la lingua italiana, che di fatto ne ha celebrato la carriera. Nato a Rimini 54 anni fa, Roberto Paci Dalò è un compositore, regista e artista visivo di fama internazionale che può vantare, tra le altre cose, una sorta di amicizia pure con John Cage. A Napoli è stato premiato per il suo ultimo progetto, 1915 The Armenian Files. Si tratta di un film, una mostra, un’opera radiofonica, un concerto multimediale e dall’11 dicembre anche di un vero e proprio disco – in coproduzione con l’Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia – che mescola elettronica, voci, strumenti acustici, ritmi e trame sonore tratte da materiale d’archivio, registrato dal vivo a Vienna durante una puntata del programma Kunstradio negli studi della Orf, la radio nazionale austriaca.

Roberto, da dove nasce l’interesse verso il popolo armeno?

«L’Armenia c nel mio cuore fin dagli anni Ottanta. Il primo incontro è stato con il regista Sergej Parajanov. Una rivelazione. Ho creato nel tempo una serie di opere (musicali, cinema, teatrali, visive, ndr) che riflettono sull’universo armeno da più aspetti ma la matrice Parajanov permane. Nel 2015 è ricorso il centenario del Genocidio compiuto dal governo ottomano: 1.500.000 armeni sono stati deportati e sterminati a partire dal 1915. Al di là dei centenari – che solitamente non mi interessano molto – tutto concorreva a creare qualcosa di simbolico proprio in questo momento».

Che tipo di lavoro c’è dietro al disco?

«Ho lavorato sul mio archivio armeno, i miei “armenian files”, unendolo ai materiali creali e raccolti sul rampo durante il 2015, tra cui le riprese fatte a Bourj Hammoud, la “città armena” – qualcosa come 150.000 abitanti – di Beirut. Il sito del progetto è anche una sorta di aggregatore dove inserisco man mano materiali non solo miei. Fonti che mi sembra interessante diffondere per sapere in maniera trasversale cosa è successo».

L’album resta comunque molto interessante anche dal punto di vista esclusivamente musicale, qual era il suo obiettivo?

«lavorando come faccio di solito in più media si pone sempre il problema del linguaggio, dell’approfondimento e della coerenza. Mi spiego: un disco significa, appunto, un disco. Non altro. Un disco deve tenere conto della musica. del suo pubblico, della percezione all’interno di un contesto ben preciso con un suo vocabolario. Fare un film è altra cosa, così come realizzare una mostra».

Come sono nate le collaborazioni?

«Per 1915 The Armenian Files ho voluto lavorare con amici che stimo molto per creare qualcosa di inaudito. Per questo l’electronic wizard Stefano Spada aka Light Parade, Fabrizio Modenese Palumbo e Julia Kent (che mi hanno permesso di inserire chitarra elettrica e violoncello) e – last but not least – Boghos Levon Zekiyan che mi ha donato la sua voce per far risuonare i testi di Daniel Varoujan (poeai armeno torturato e ucciso a il anni nell’agosto 1915 da un gruppo di ufficiali turchi, ndr). Levon è un amico di famiglia, ci conosciamo da una ventina d’anni, la registrazione è di qualche anno fa e precede il suo attuale incarico come Arcivescovo di Istanbul (nominato da Papa Francesco)».

Allargando lo sguardo alla sua carriera , si come intrecciano forme d’arte così diverse tra loro?

«Con Giardini Pensili (il gruppo teatrale da lui fondato che nel 2015 ha festeggiato trent’anni di vita, ndr) ho potuto nel tempo realizzare progetti anche complessi nati grazie alla collaborazione tra persone provenienti da discipline diverse. Il teatro – inteso come spazio fisico e mentale – è per eccellenza il luogo dell’incontro tra le arti. Da sempre. Se penso alla forza immaginifica e mediale del teatro barocco non posso non considerare come alcune delle invenzioni dell’epoca siano ancora alla base delle messe in scena di oggi (o almeno delle mie). La costruzione quindi di architetture percettive. Il mio lavoro non è “multimediale”, al contrario. Esso è mono medium perché ciascun medium ha suoi codici e modalità. E ciascun medium ha un pubblico con una conoscenza della sua grammatica».

È soddisfatto dei riscontro che ottiene il suo lavoro? È diffìcile fare un certo tipo di musica, in Italia, fuori da ogni logica commerciale?

«Certamente è un lavoro di nicchia ma c’è da dire che, almeno in Italia, è sufficiente non apparire in televisione per essere di nicchia. Presento i miei progetti in festival, teatri e musei conosciuti come anche in posti minuscoli e spazi occupati. Questo movimento tra luoghi istituzionali e indipendenti è per me vitale e nutre l’attivista che è in me. Penso che l’arte sia sempre un processo anche politico. Lo dico da anarchico strutturalista. Credo sia importante confrontarsi con tanti mondi e tanti contesti. Poiché vivo di un lavoro che mi sono inventato e dove generalmente ho carta bianca per fare le mia pazzie posso dire di essere davvero felice».

Qual è il suo rapporto con la Romagna?

«Sono nato a Rimini ma sono cresciuto a Tremosine del Garda, un paesino di 500 abitanti in cima al lago. Dopodiché sono rientralo in Romagna e ho studiato al Liceo artistico di Ravenna mentre studiavo musica in varie scuole seguendo il mio maestro di clarinetto Renzo Angelini. Ho vissuto anni a Roma. Napoli e soprattutto a Berlino, con Vancouver la mia città del cuore, dove ho passato lunghi periodi. Insomma, inevitabilmente in Romagna faccio un po’ l’antropologo guardandola dall’interno e dall’esterno allo stesso tempo. La vedo come una regione metropolitana – dal diametro di Città del Messico per capirci – con una forte mobilità. In Romagna si guida molto e ci si sposta con facilità per vedere spettacoli, concerti, mostre, film. È da questo punto di vista, molto nordamericana e ciò mi piace parecchio. Diciamo che l’interfaccia Romagna è praticamente perfetto. Chi la visita, temporaneamente rimane strabiliato per la convivialità, il calore, le persone. Altra cosa è trasferircisi. A mio avviso è un luogo chiuso, arroccato. E difficile approfondire veramente i rapporti e la cosiddetta “integrazione” è ardua».

Quali sono gli artisti che l’hanno più influenzata e con i quali è stato utile lavorare?

«John Cage è stato il mio maestro. A New York era lui che mi portava in giro a sentire concerti oppure a casa sua chiacchierando e bevendo una tazza di tè. Ed era sempre lui che veniva a sentire i miei concerti all’Experimental Intermedia, the place in town, il mitico loft di Phill Niblock nella Spring Street. Ho una lista infinita di artisti che amo e ho anche la grande fortuna di essere amico e collega di alcuni di quelli che più mi ispirano e con i quali lavoro. Cito tra gli altri Rupert Huber, Scanner, Philip Jeck, Robert Lippok, Adriana Borriello, David Moss, Luca Aquino, Gabriele Frasca, Guido Guidi, Kronos Quartet, Fred Frith, Alvin Curran, Terry Riley, Tom Cora, Stefano Scodanibbio, Scanner, Sacri Cuori, Andrea Felli, Paolo Rosa, Yasuhiro Morinaga, Patrizia Valduga, Giorgio Agamben, Predrag Matvejevic’, Levon Zekiyan. Non potrei desiderare di meglio».