Malia Buglioni
Segno
Novembre 2018
Una struttura architettonica site-specific invade il Salone centrale della Pinacoteca Civica custodita all’interno del Palazzo del Merenda, a Forlì. Qui un’installazione sonora corredata da tappeti ricamati, oggetti rituali, stendardi, sentieri di luce e leggere configurazioni dà origine alla creazione di uno spazio immersivo e sensoriale. E’ SHUL שול, l’ultimo progetto ideato da Roberto Paci Dalò, a cura di Davide Quadrio, visibile fino al 09 febbraio 2019.
Shul (שול) significa Sinagoga in yiddish e corrisponde all’usanza ebraico-italiana di riferire alla sinagoga come “scola”. Nella grande sala, infatti, tutto evoca un contesto sacro. Esemplare di ciò è il materiale visivo dell’opera che si basa su rappresentazioni raccolte e pubblicate per la prima volta da Giulio Busi nel suo libro Qabbalah visiva (Einaudi 2005), primo volume che tenta di tracciare una storia del disegno mistico nella tradizione ebraica.
Pioniere del rapporto tra arte e tecnologie digitali, investigando in particolare le relazioni tra disegno, suono, teatro, cinema e radiofonia, Roberto Paci Dalò (regista, artista visivo, compositore/musicista) ha saputo sapientemente confrontarsi con un ambiente settecentesco per nulla semplice. Dotato di un fervido estro creativo, l’artista riminese ha magistralmente messo in comunicazione il suo intervento con le grandi tele del Sei-Settecento attraverso l’uso particolare della luce. In questa location il dominio dell’oscurità è a tratti attenuato da zone illuminate col fine di evidenziare il lavoro installativo mantenendo, tuttavia, un costante dialogo con i dipinti del Guercino e di Guido Cagnacci. Suoni e silenzio, disegni cabalistici, simboli dell’antica religione e un piccolo sukkah (capanna) fanno immergere lo spettatore in uno spazio sacro laico ibrido capace sia di riunire elementi della sinagoga sia di evocare anche altri culti e mondi. Paci Dalò realizza un’opera d’arte totale: un luogo nel quale gli utensili religiosi si relazionano all’installazione sonora multicanale che circonda i visitatori trasportandoli con la mente altrove.
Incipit di Shul è il Congresso ebraico di Forlì: un importante raduno di delegati delle comunità ebraiche di varie città dell’Italia settentrionale e centrale che si tenne dal 16 al 18 maggio 1418 in cui furono prese rilevanti decisioni riguardanti il comportamento etico e sociale che i giudaici avrebbero dovuto seguire. Inoltre, una delegazione fu inviata al papa Martino V per la conferma degli antichi privilegi e la concessione di nuovi. In particolare, si chiedeva di abolire la legislazione antigiudaica voluta dall’antipapa Benedetto XIII (Etsi doctoribus gentium). Martino accolse le richieste del congresso.
«Shul – commenta Davide Quadrio, curatore della mostra – continua la ricerca di Paci Dalò nel mondo rituale e in quello religioso. Non necessariamente sinonimi in questo caso, il rito – religioso – e il gesto – artistico – nelle sue manifestazioni religiose si pone al centro di un luogo complesso fatto di misurare lo spazio, costruire universi introspettivi, muovere lo sguardo alla ricerca del divino».
Con Shul Paci Dalò ha saputo dar vita ad uno spazio drammaturgico che coinvolge, attraverso la sua complessità, lo spettatore rispettando l’ambiente che lo ospita.
Per approfondire ho intervistato l’artista Roberto Paci Dalò.
Maila Buglioni: Il progetto SHUL nasce attorno a un importante Congresso ebraico tenutosi a Forlì dal 16 al 18 maggio 1418 cui presero parte i delegati delle comunità ebraiche (di Padova, di Ferrara, di Bologna, delle città della Romagna e della Toscana e di Roma) ed in cui furono prese delle rilevanti decisioni riguardanti il comportamento etico e sociale che i giudaici avrebbero dovuto seguire. In particolare, si chiedeva di abolire la legislazione antigiudaica voluta dall’antipapa Benedetto XIII (Etsi doctoribus gentium). Martino accolse le richieste del congresso. Quali sono i motivi che ti hanno spinto ad interessarti a tale evento storico?
Roberto Paci Dalò: Ho iniziato a riflettere sulla storia di Forlì grazie a un invito dell’assessora alla cultura Elisa Giovannetti che mi fatto conoscere il progetto “Atrium”. Il Comune di Forlì è infatti capofila di Atrium un itinerario turistico e culturale transnazionale per esplorare la memoria europea del XX secolo delle architetture dei regimi totalitari con l’intento di indagarne le funzioni originarie, le qualità architettoniche, le implicazioni storiche e socio-politiche. A partire da questo invito ho iniziato a esplorare la città indagando anche i luoghi della sua memoria ebraica. È così che, nel corso di queste ricerche, mi sono imbattuto nella vicenda del convegno del 1418 che ho trovato affascinante e allo stesso tempo semisconosciuto. A partire da questa prima suggestione ho iniziato a pensare alla creazione di questo spazio fisico e immersivo.
M.B: “SHUL” è un’opera d’arte totale in cui elementi visivi, sonori ed installativi creano uno spazio drammaturgico di forte impatto emotivo. Tuttavia, il contesto del Palazzo del Merenda e, in particolare, del Salone della Pinacoteca Civica è piuttosto caratterizzato dalle opere del Sei-Settecento (di Francesco Albani, Andrea Sacchi, Guido Cagnacci, Cristoforo Serra, Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, Benedetto Gennari, Carlo Maratta, Carlo e Felice Cignani) e dall’architettura dell’epoca (stucchi, pavimento a scacchiera bianco e nero..). E’ stato difficile lavorare ed allestire “SHUL”in tale location per nulla asettica?
R.P.D.: Come faccio sovente nel mio lavoro, sono partito dall’ombra. Ho voluto portare il buio dentro questo Salone centrale in modo tale da far quasi sparire le opere presenti. A questo punto attraverso la luce ho iniziato a ridisegnare percorsi per mettere in risalto piccole porzioni di alcune delle tele. Un lavoro sul dettaglio sulle orme di Daniel Arasse (che ho iniziato a studiare grazie al fotografo Guido Guidi) per creare relazioni esplicite con miei manufatti. Lavorare su luoghi così connotati mi interessa parecchio e mi piace poter riflettere sugli strati di tempo per far emergere una drammaturgia altra e contemporanea. Qualche tempo fa ho creato un ciclo di spettacoli (L’Assedio delle ceneri pensato con il poeta e scrittore Gabriele Frasca) nella chiesa del Museo della Certosa di San Martino a Napoli. Lì il problema – consueto tra l’altro – era l’eccessiva illuminazione delle opere e dello spazio. Questa saturazione luminosa creava a mio avviso una perdita della possibilità di vedere davvero e diventa ancora più fastidiosa investigando un periodo come quello barocco già così denso di informazioni. Alla Certosa ho quindi eliminato completamente l’illuminazione pre-esistente per installare un sistema autonomo fatto di tanti delicati punti luce e lavorare quindi a partire dall’oscurità. In fase di preparazione del progetto a Forlì ho svolto alcuni sopralluoghi in vari spazi della città. Chiaramente il primo luogo visitato sono stati i bellissimi Musei San Domenico che avrebbero potuto ospitare questo progetto. Ma quando con Elisa Giovannetti, Lucia Sardo e Cristina Ambrosini sono entrato nel Salone centrale della Pinacoteca Civica, non ho avuto dubbi e ho sùbito desiderato immaginare il lavoro lì. La Pinacoteca Civica di Forlì è chiusa da anni per restauri e per poter realizzare il progetto abbiamo dovuto inventare modalità per poter far funzionare la sua apertura straordinaria, dalla guardiania a tutti gli aspetti tecnici. Ma quello era il luogo deputato e fare questa mostra lì ha anche permesso di restituire temporaneamente alla città uno spazio così importante. Le tele esposte nel Salone sono di autori come Cagnacci, Guercino e altri. Di grandi dimensioni e di straordinaria fattura non potevano non “far parte” dell’opera. Attraverso la luce però ho tracciato linee, sentieri di luce che collegano alcuni dettagli delle opere ai materiali da me creati. Il suono e la luce sono elementi fondamentali nel disegnare uno spazio rituale. Il suono è un’architettura potente in grado di creare luoghi invisibili ma chiaramente percebili e immersivi per loro natura. In questo caso ho lavorato con un ambiente acustico multicanale dove il materiale principale della composizione è il suono del clarinetto. Suono che si muove attorno ai visitatori collegandosi anche allo yad sospeso che in cima vede la presenza di una figurina che proprio un clarinetto suona. Come se il suono dell’intero spazio fosse provocato da questa miniatura. A accogliere i visitatori sono anche “nobori”, stendardi collocati ai lati dello scalone centrale del palazzo. I nobori erano significativi elementi sui campi di battaglia del Giappone feudale e in questo caso le immagini provengono sempre dall’iconografia cabbalistica.
M.B: Nell’installazione confluiscono anche elementi che richiamano altre fedi dando luogo, appunto, ad uno spazio sacro laico ibrido in cui ritornano diversi riferimenti alla sinagoga, alla moschea e alla chiesa ortodossa. Quali sono state le reazioni degli spettatori di fronte a “SHUL”? Hanno provato senso di spaesamento oppure vi hanno ritrovato un ambiente familiare?
R.P.D.: Ho avuto la fortuna di parlare con tante persone durante questo periodo. Una parte dei visitatori era a conoscenza della mostra, tanti altri erano stati semplicemente attirati dal portone del palazzo stranamente aperto. Con tutti la conversazione è stata articolata e molto interessante. Naturalmente alcuni erano perplessi di fronte a dipinti che si vedevano poco. Dall’amministrazione della città mi dicono che il giudizio generale è molto positivo anche grazie all’intreccio tra opera in sé e sguardo sul tessuto e la storia della città e delle sue comunità.
M.B: Il gioco di luci ed ombre, la composizione sonora e la serie di elementi – tra cui anche l’illuminazione di certi particolari dei quadri del Guercino e di Guido Cagnacci – richiamano alla mente un luogo sacro, invitando l’utente a riflettere su questioni escatologiche e sulle differenze e/o somiglianza tra le differenti fedi. Quest’attenzione verso la religione, il sacro ed il rito ritorna costantemente nelle tue opere…
R.P.D.: Nel mio lavoro continuamente ritorna una tensione verso il luogo sacro e rituale. Da decenni frequento sinagoghe, moschee, chiese (in particolare cristiano-ortodosse). Partecipo ai riti, parlo con le persone, raccolgo voci, suoni e immagini. Un paio di settimane fa ero alla Sinagoga di Trieste per la chiusura di Shabbat e, al termine della celebrazione, sono stato invitato a un’appassionante conversazione con Rav Eliahu Alexander Meloni per un momento di approfondimento sulla storia di Yosef e Faraone. Il Concilio Vaticano II ha fatto cose meritorie come ad esempio “riconoscendo tra la chiesa Cattolica e quella Ebraica un legame spirituale, gli Ebrei sono scagionati dal reato di Deicidio, perché la responsabilità non può essere di un intero popolo, ma fu una colpa personale” ma la dismissione del latino e del rituale ha provocato un decadimento estetico enorme. E la forma è tutto: non c’è contenuto senza adeguata forma.
M.B: L’antica questione della rappresentazione del divino, la sua resa attraverso figure iconiche o aniconiche, è centrale nel tuo intervento. Infatti, la particolare illuminazione da te studiata mette in relazione i personaggi dei dipinti del Guercino e di Guido Cagnacci con i ricami dei tessuti disposti a terra e con i molteplici simboli religiosi…
R.P.D.: Shul è basato su disegni pubblicati per la prima volta da Giulio Busi nel suo volume Qabbalah visiva edito da Einaudi nel 2005. Si tratta di un testo capitale che mostra come anche nell’ebraismo sia presente un’iconografia talvolta persino antropomorfa e questo libro tenta per la prima volta una storia del disegno mistico nella tradizione ebraica. Come dice Busi stesso: “Di questo giudaismo iconico rimangono straordinarie attestazioni archeologiche, soprattutto nelle decorazioni pavimentali delle sinagoghe di Galilea, I diagrammi zodiacali, che dominano molti di questi mosaici, servivano forse per condurre il fedele lungo un percorso di conoscenza che, attraverso i fenomeni astrali, giungeva al segreto del Dio creatore.” Nel desiderio di dare una tridimensionalità e tattilità ad alcuni di questi disegni ho pensato (insieme al curatore Davide Quadrio) alla tecnica della tessitura. È così che la mostra vede la presenza di 34 grandi tappeti tessuti con materiali di particolare qualità. La lavorazione magistralmente realizzata da EDA Milano, è così attenta al dettaglio da dare l’illusione di tessuti dipinti, letteralmente disegnati. Questo effetto è dato anche dall’uso di cotone per la base e ciniglia per il disegno vero e proprio per creare un nero profondo e in rilievo. Questi tappeti vedono collocata al centro una sukkah (capanna), una struttura leggera di metallo e tessuto che al centro ha uno yad sospeso come un filo a piombo a sfiorare una tavoletta in oro. Lo yad (in ebraico יד, letteralmente “mano”) è un puntatore usato per guidare le letture pubbliche del testo del Sefer Torah; ha la forma di bastone o scettro che si restringe ad una estremità fino ad assumere la forma di una mano chiusa con l’indice esteso. Insieme alla parte visiva ho creato un ambiente sonoro multicanale che circonda i visitatori immergendoli ulteriormente nell’opera. È così che una “shul” (‘sinagoga’ in yiddish) poggia su un pavimento di tappeti (evocando una moschea) mentre lo yad guarda a una tavoletta d’oro che evoca il fondo dell’icona della chiesa cristiano-ortodossa. Queste tre fedi sono evocate in maniera leggera, non didascalica, finanche laica, a partire dagli elementi stessi dell’opera.
M.B: Artefatto di “SHUL” è la performance Niggunim presentata il 18 Maggio di quest’anno nella Chiesa di San Domenico Giacomo ai Musei San Domenico e, successivamente, come site-specific espanso col titolo Niggunim|nobori, a cura di Davide Quadrio, sulla spiaggia di Marzocca di Senigallia all’interno del progetto ‘Demanio Marittimo. Km-278’. Puoi spiegarci in che termini si connette questa performance con l’installazione “SHUL”?
R.P.D.: Niggunim è l’oggetto sonoro e visivo che ho voluto disegnare come preludio a Shul iniziando così a lavorare su alcuni dei disegni che poi hanno generato la mostra. Desideravo collocarmi con esattezza a 600 anni di distanza dal convegno di cui sopra e per questo ho immaginato insieme a Elisa Giovannetti una performance negli spazi (mirabili) dei Musei San Domenico presentata proprio il 14 maggio 2018. “Niggun” (niggunim al plurale) significa in ebraico: “aria” o “melodia” e si tratta di una forma di canzone o melodia religiosa ebraica cantata da gruppi. È una tecnica del canto, spesso con suoni ripetitivi astratti al posto di una lirica formale. Talvolta versetti della Torah, o citazioni da altri testi ebraici classici, sono cantati rispettivamente così da creare un niggun. Alcuni niggunim vengono intonati come preghiere di lamentazione, mentre altri ancora possono essere gioiosi o vittoriosi. I niggunim sono specialmente importanti nella liturgia dell’ebraismo chassidico che ha sviluppato le sue proprie forme spirituali nel devekut (la gioia mistica della preghiera intensa). Questa performance ha poi generato Niggunim | nobori dove agisco al centro di una scena delimitata ai quattro angoli del palco da altrettante performer che sorreggono stendardi nobori e eseguono – guidati da Stephanie Chauvel – una partitura coreografica con il semplice movimento delle mani e delle braccia. Sorta di mudras a creare un contrappunto all’azione sonora nella quale emergono piccoli movimenti di danza. Ques’opera mi ha permesso di avviare una collaborazione con un artista e designer (come direbbe Bruno Munari) che ammiro molto: Andrea Anastasio. Le sue “Sinopie” hanno così fatto parte dell’allestimento e sono state indossate dalle performer nella presentazione che si è svolta all’alba sulla spiaggia di Marzocca all’interno dell’opera collettiva “Unnamed” che ha visto anche la presenza del coreografo e danzatore Alessandro Sciarroni. Niggunim sarà presentato il 14 gennaio 2019 presso Beth Shlomo (cuore della comunità ashkenazita di Milano) su invito di Delilah Gutman e Rephael Negri e Niggunim | nobori sarà presentato nella primavera del 2019 a Vicenza all’interno di un progetto curato da Pier Luigi Sacco.